In occasione di Manifesta 7, Office for Cognitive Urbanism ha elaborato un progetto che tenta di individuare le contraddizioni delle istanze relative alle identità locali, regionali e transnazionali. Come luogo esemplare è stata scelta la stazione ferroviaria di Rovereto – punto centrale della città: le stazioni ferroviarie sono infatti snodi di collegamento tra arrivo e partenza. Non si è ancora del tutto arrivati, ma non si è neanche veramente partiti. Questa forma ambivalente e precaria di localizzazione è sintomatica non solo per i viaggiatori ma per qualunque soggetto che per condizione culturale, nazionale ed economica è estraneo all’ambiente locale, tra cui gli emigrati profughi di lingua e religione diverse. Office for Cognitive Urbanism ha proposto di evidenziare il significato della stazione come punto di riferimento per tali presenze, invitando sette artisti a sviluppare i loro contributi sul soggetto. La rielaborazione in chiave artistica della stazione ferroviaria rappresenta lo spettro di possibilità di utilizzo, indirizzato a coloro che la città e la regione si sono trovati solo in parte preparati ad accogliere. In questo luogo diviso tra arrivo e partenza, la città esiste soltanto sotto forma di nome. Il significato che questo nome assume per le persone che da li partono e arrivano dipende dal modo in cui la città reagisce alle loro diverse necessità. ManifeSTATION mira a diventare sintomo urbano e regionale di questo spazio intermedio, fusione tra dichiarazione urbanistica-artistica e stazione ferroviaria immaginaria.
Office for Cognitive Urbanism lavora sulle problematiche urbanistiche utilizzando la teoria dei media, dello spazio e del soggetto come punto di partenza. I suoi progetti si concentrano sulla costruzione politica e culturale dei significati dello spazio e delle loro alterazioni. Per Manifesta 7 ha concepito una “stazione dei treni immaginaria”, collocata temporaneamente nelle attuali strutture della stazione di Rovereto, che accoglie i progetti dei sette artisti invitati. Caratteristica essenziale di questo intervento è la volontà di individuare il punto di transizione tra spazio privato e spazio pubblico. In tal modo manifeSTATION si concentra su coloro che arrivano in città e in regione solo per un periodo, e che sono quindi costretti ad affrontare meccanismi di esclusione e integrazione connessi al concetto di identità territoriale.
L’opera di Aksamija ruota intorno al tema dell’Orientalismo, analizzato da un punto di vista completamente nuovo. L’artista è interessata a decostruire il principale aspetto territoriale degli edifici sacri proponendo un’architettura “portatile” e tascabile”. L’ambiguità tra spazio, immagine dello spazio e religiosità è quindi voluta. Per Manifesta 7 è stata progettata una moschea tascabile che si può mettere in borsa, per poi trasformarla in un tappeto da preghiera con pantofole integrate. Il fascino connaturato all’idea di mobilità, che implica anche la corporeità e lo slittamento del soggetto in differenti e mutevoli personaggi, gioca un ruolo importante assieme alle questioni legate all’identità culturale e religiosa, alla paura dell’Islam, del terrorismo e del conseguente sviluppo di una società poliziesca.
Il confronto tra architettura e fotografia è una costante nei lavori di Andreas Duscha che aspira a costruire un’immagine spaziale, prodotto di una architettura che si rivolge alla costruzione di spazi e allo stesso tempo immagine di luoghi volti a superare i limiti dello spazio costruito. Ciò che viene costruito è quindi solo la parte manifesta di qualcosa d’immaginato. Per Manifesta 7 Andreas Duscha ha analizzato gli spazi interreligiosi di preghiera, luoghi di meditazione e introspezione che è possibile trovare ovunque nel mondo, dagli aeroporti agli ospedali. Dalla documentazione raccolta emerge la tragicomica estetica che caratterizza questi tentativi di raccogliere sotto lo stesso tetto di un luogo immaginario differenze culturali e religiose.
Le opere di Sonia Leimer mettono in luce il rapporto tra la messa in scena e le culture dell’immagine. L’architettura è quindi esaminata come effetto della costituzione mediatica delle società odierne e delle loro narrative. L’intervento artistico si configura come rappresentazione di avvenimenti, sceneggiatura degli spazi e delle loro configurazioni sociali e ideologiche. Nel progetto di Sonia Leimer per Manifesta7 la stazione viene trattata come fosse il set di un film immaginario, seguendo la capacità mediatica di cogliere il senso di un luogo. Le memorie di un set cinematografico di un film immaginario, organizzate negli spazi pubblici della stazione, conducono quindi alla percezione del luogo come un’inestricabile miscela tra spazio reale e virtuale.
Il confronto tra politica e quotidianità attuato da Christian Mayer prevede anche una riflessione sui mezzi con cui questi stessi temi vengono trattati. In questo progetto Christian Mayer mette in scena il paradosso temporale rappresentato dall’articolazione di Manifesta 7, che si tiene contemporaneamente in quattro luoghi diversi. Fino al XIX secolo ognuno di questi luoghi viveva secondo il proprio calcolo del tempo; solo la costruzione della ferrovia ha dato al tempo uno standard sovra-regionale, straordinariamente rappresentato dall’orologio delle stazioni. Il progetto consiste nel riportare il tempo a prima dell’introduzione del Tempo Centrale Europeo e attraverso gli allora differenti orari rendere misurabili le differenze culturali, politiche ed economiche insite nella omogeneizzazione odierna.
Uno dei temi principali di Stoyanov è quello della migrazione – motivata sia da fattori economici, che politici o personali. Quando i tentativi di assimilazione falliscono, come unica possibilità rimane quella di vivere ai margini della società – emarginati ed isolati anche nel mezzo della vita culturale di ogni giorno, ben nota ma ancora estranea. Per Manifesta 7 Stoyanov si rivolge alle manifestazioni artistiche urbane che trasformano intere città in territori culturali, con impliciti meccanismi di integrazione e repulsione. L’omogeneizzazione culturale degli spazi urbani divide gli uomini tra coloro che usufruiscono di tali spazi e coloro che li vivono. Il Disneylend Express li collega entrambi.
Le questioni che si trovano alla base degli interventi spaziali di Adrien Tirtiaux hanno un tratto comune: l’esperienza che i diversi modi in cui gli uomini si muovono e si comportano negli spazi tendono sempre a diventare consuetudini – come vi fossero specifiche istruzioni su come utilizzarli. Questo punto di vista non dimentica però anche la possibilità di un utilizzo estemporaneo degli spazi, anzi vuole renderla manifestamente evidente. I suoi interventi offrono istruzioni per quest’uso alternativo che, a seconda della situazione socioculturale, modifica l’immagine di tali luoghi, offrendo spunti evocativi per nuovi spazi d’azione. Quando uno spazio appare come qualcosa che non è, o non può essere, significa che da qualche parte si nasconde una variabile troppo spesso dimenticata: uno spazio nello spazio.
Uno dei temi centrali dei lavori di Anna Witt è la quotidianità della politica, che si rispecchia nelle sue trasposizioni mediatiche e nelle immagini a essa connesse che riguardano la concezione di cosa costituisce la politica. Allo stesso tempo si riflette nell’esperienza dell’essere banditi senza scampo da ogni discorso politico. L’ambivalenza tra politica e impotenza dà le coordinate ai suoi interventi artistici. Anna Witt cerca nel confronto con le popolazioni locali i possibili punti di attrito di questa ambivalenza e mette in scena, contro il mutismo della gente, una possibile partecipazione a un evento politico. Attraverso questa rappresentazione la distanza rimane immutata ma cambia l’immagine della politica, che si confronta ora con la rappresentazione di una possibile partecipazione al discorso politico.
EX PETERLINI, VIA SAVIOLI 20 – MANIFATTURA TABACCHI, PIAZZA MANIFATTURA 1 – STAZIONE FERROVIARIA, PIAZZALE ORSI
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